Cortona On The Move 2025. Esibire non basta più, è tempo di iniziare a creare

La quindicesima edizione del Cortona On the Move nasce da una riflessione del direttore artistico Paolo Woods, all’indomani del risultato delle elezioni americane del 2024, che hanno peraltro coinciso con la fine dell’edizione 2024 del festival: “siamo in un mondo sempre più diviso, con fratture che si allargano fino a diventare ferite aperte e estremismi che si nutrono di polarizzazione, dove le parti opposte non comunicano ma urlano”. Da qui, la domanda: in un’epoca in cui il conflitto prevale, quale può essere il ruolo di un festival di fotografia? La risposta è contenuta nel titolo scelto per quest’anno: “Come Together”, un invito a interrogarsi non solo sul significato della riconciliazione, ma anche sui modi, spesso complessi e non lineari, per raggiungerla. Un processo che riguarda tanto le dinamiche collettive — politiche, sociali, culturali — quanto il rapporto individuale con sé stessi.

L’edizione 2025 non cerca risposte semplici, né scorciatoie narrative. Al contrario, propone un’esplorazione lucida delle tensioni tra rottura e riparazione, tra distanza e riavvicinamento. La riconciliazione viene osservata nelle sue molte forme: come atto di coraggio, come sfida personale, come tentativo — spesso imperfetto — di ricucire relazioni danneggiate o smarrite. La proposta sembra essere accolta con grande entusiasmo, nelle giornate inaugurali il festival ha registrato un flusso costante di persone, arrivato a 7200, numero importante che rappresenta un incremento del 44% rispetto allo scorso anno.

Se volete sapere com’è il festival, non so rispondere. Né mi permetto di farlo. Gli entusiasmi degli anni passati, soprattutto quelli dei primi tempi, sono svaniti. Mi limito quindi ad alcune considerazioni, sperando che vengano accolte in modo costruttivo e che possano favorire un dibattito sereno. La riflessione da cui voglio partire riguarda il numero dei progetti esposti: sono semplicemente troppi. All’inizio di questa avventura — parlo dei festival fotografici in generale — la fotografia, quella bella, quella di reportage o progettuale, non trovava molti spazi per mostrarsi. Il grande pubblico era in realtà un piccolo pubblico: vero, autentico, fatto di appassionati. Non di semplici curiosi.

Non trovava più spazio perché l’editoria tradizionale, quella su carta, stava attraversando una profonda crisi, in attesa di un rinnovamento che poi non c’è stato. I nuovi media, dal canto loro, permettevano a chiunque di familiarizzare con una fotografia diversa: meno ragionata, poco progettuale, molto istintiva, spesso legata al tempo libero. In quel contesto, i festival hanno rappresentato un momento fondamentale, per la proposta e per il confronto.

Funzionavano perché nascevano dalla migliore espressione del fotogiornalismo, che non era costituita solo da chi scattava materialmente le fotografie, ma anche dai photo editor, figure fondamentali per dare forma a un progetto, e dai giornalisti, il cui lavoro continuo di cronaca e critica permetteva di entrare nell’attualità. Aveva quindi senso portare molti progetti, limitandone il numero di immagini: perché la storia — intesa come i grandi temi della cronaca — era comunque condivisa. Lo era perché esisteva una committenza, o almeno una solida conoscenza del mondo editoriale, che sapeva filtrare, orientare e dare forma. I progetti venivano realizzati perché c’erano coloro che avevano gli strumenti per accoglierli, sostenerli, pubblicarli. Soprattutto, nelle fotografie c’era l’attualità, molto presente sui media.

In un contesto di grave crisi editoriale, quale quello che viviamo da qualche anno: “il vocabolario fotografico si semplifica e diventa prevedibile, trasformando le immagini in una raccolta di generi e stereotipi”, scrive Fred Ritchin1 nel suo ultimo e consigliatissimo saggio “L’occhio sintetico”. È esattamente ciò che vedo da tempo nei festival: lavori che si somigliano in tutto — dalle persone ritratte all’illuminazione, dai luoghi alle tematiche, per non parlare della post-produzione. Un concetto che ritorna in Ritchin: “Ci sono molti casi simili, dove i preconcetti hanno la meglio e quindi le persone vengono raffigurate come tipi senza alcuna complessità — i poveri tristi, i senzatetto scarmigliati, i ricchi potenti e via dicendo —, cosicché le commissioni di fotografie possono diventare un esercizio di illustrazione di pregiudizi.” D’altra parte, apprezzare ogni singolo lavoro è diventato complicato, nessuno dei quali riesce a godere del necessario spazio. Poche fotografie selezionate, utili per dare un’idea, non rendono giustizia alla complessità dei progetti, che meriterebbero invece di essere apprezzati nella loro interezza.

Head, 2023 – From the series Epitome © Vic Bakin

La prima proposta non richiesta è quindi semplice: ridurre il numero di progetti e ampliare la selezione di immagini per ciascuno. Questo mi porta alla seconda proposta, sempre non richiesta: trasformare il festival in un committente. Incaricare un numero limitato di fotografi e chiedere loro di sviluppare il tema dell’anno, anziché rincorrere una moltitudine di storie personali — che, peraltro, spesso risultano faticose da comprendere e apprezzare. Una curatela di questo tipo permetterebbe di coinvolgere fin dall’inizio i photo editor. Ma consentirebbe anche di aprire un dialogo con il giornalismo e quindi con gli editori, che, forti della visibilità offerta da un festival, sarebbero forse più motivati a pubblicare quei progetti sulle loro testate — e magari a commissionarne di nuovi. La terza proposta non richiesta riguarda la qualità delle stampe. Un festival di alto livello dovrebbe essere anche l’occasione per apprezzare la fotografia nella sua materialità. Vedere tante immagini stampate — attenzione: non tutti i progetti, ma molti — su carta blueback, quella dei manifesti pubblicitari, e incollate come tali, impedisce di cogliere la bellezza dell’immagine. Le fotografie diventano piatte, inespressive. La quarta proposta non richiesta riguarda l’allestimento. Nessuna realtà museale espone mostre fotografiche senza un allestimento capace di valorizzarle. Nei festival, questa prassi sembra del tutto abbandonata. L’assenza di un allestimento, non necessariamente per ogni singola mostra, ma almeno riconducibile al tema dell’edizione, rafforza l’idea che tutti i progetti siano uguali e questo è un vero peccato.

Ho citato l’ultima pubblicazione di Fred Ritchin perché anche lui parla di Alfredo Jaar e, in particolare, proprio del lavoro presentato a Cortona On The Move 2025: Inferno and Paradiso. Ne scrive riflettendo sul significato delle immagini che, come il titolo suggerisce, evocano l’inferno e il paradiso, offrendone una lettura che vi invito a leggere nel suo libro.

Ciò che rende questo progetto interessante non sono tanto le fotografie in sé — 40 in totale, selezionate da 20 fotoreporter invitati da Jaar a scegliere due immagini dal proprio archivio: la più triste e la più felice — quanto l’installazione, così semplice eppure così geniale. Solo questa mostra, a mio avviso, vale il prezzo del biglietto.

Viviamo in un mondo frenetico, in cui il tempo per provare emozioni è ridotto al minimo, siano esse brutte (inferno) o belle (paradiso). Invece dovremmo fermarci più spesso a chiederci come ci sentiamo, cosa proviamo, cosa desideriamo, anziché correre continuamente. Questa installazione ci costringe a farlo, ci invita a vivere le emozioni, soprattutto a riconoscere il valore del tempo.

Molti ritengono inutile lo studio delle lingue antiche, come il latino o il greco. Eppure, ricordo con piacere quando scoprii che in greco il passato del verbo “vedere” si traduce con “sapere”. È un perfetto che si traduce al presente, la formula magica che tutti gli studenti imparano è: “ho visto, quindi so.” È un concetto forte, perché il tempo che dedichiamo a osservare determina ciò che sappiamo. Più osserviamo, più comprendiamo.

L’installazione di Alfredo Jaar ci restituisce esattamente questa esperienza. Le quaranta fotografie sono proiettate su un muro, quindi non ci sono stampe di alta qualità. La sala è buia. Quando viene mostrato il gruppo “Inferno”, non è possibile vedere nulla del gruppo “Paradiso”, e viceversa. Ogni gruppo è proiettato per un tempo sufficientemente lungo, direi molto lungo: un tempo che serve però ad abituarsi alle immagini, ad apprezzarle, a coglierne i dettagli, a sentire le emozioni emergere. In quell’intervallo accade qualcosa di unico: si trova “la fotografia”, e con essa una profonda riflessione sull’esistenza — la propria, quella di chi è ritratto, e quella di chi ha scattato. È anche un valido esercizio di memoria, ricordare l’immagine non proiettata per poterla confrontare con quella proiettata.

L’altra mostra che mi ha colpito è quella di Christopher Anderson e Marion Durand. Non a caso, una delle fotografie è stata scelta come immagine di copertina per l’edizione 2025. Family Trilogy, pensata appositamente per Cortona On The Move 2025, offre uno sguardo profondamente personale sul tema di quest’anno: Come Together. Il progetto nasce da un lavoro a quattro mani. Christopher Anderson firma le immagini; Marion Durand, sua compagna di vita, ha curato la selezione e la costruzione narrativa, riorganizzando l’archivio fotografico. È un esempio efficace di quanto sia fondamentale il lavoro di curatela e di photo editing, ultimamente sottovalutato. Ne emerge un racconto che intreccia i ricordi di una vita condivisa, spesso messa alla prova dalla fotografia stessa, presenza ingombrante che, a tratti, si è imposta come una rivale silenziosa. La mostra si articola intorno alla nota trilogia editoriale di Anderson: SON, riflessione intensa sulla paternità; PIA, che indaga il delicato equilibrio tra padre, macchina fotografica e figlia; e MARION, dichiarazione d’amore visiva e conclusiva. Insieme, questi tre capitoli compongono un’esplorazione sincera dei legami familiari, osservati non solo attraverso l’obiettivo, ma anche attraverso lo sguardo dell’altro. È un lavoro personale, ma con una valenza universale. Della loro intimità, in realtà, si vede poco — anche se, a uno sguardo veloce, sembrerebbe il contrario.

Per il resto, questa edizione del festival non entusiasma. Probabilmente lo fa con chi lo visita per la prima volta, o con chi torna dopo molti anni. Ma per chi non manca mai l’appuntamento annuale, a parte i buoni propositi, c’è poco di nuovo. Mi dispiace scriverlo, ma la scelta del tema appare superflua: i progetti, nei contenuti e nello stile, si somigliano, anno dopo anno.

From the series Supersosia © Ray Banhoff

Un’impressione confermata da alcune ricorrenze tematiche e visive. Il bel lavoro di Ray Banhoff, Supersosia, la cui bellezza si apprezza se ascoltato dalle sue parole, ad esempio, richiama concettualmente quello presentato lo scorso anno da Niccolò Rastelli sui cosplayer, They Don’t Look Like Me. Ho potuto apprezzare particolarmente Supersosia perché Banhoff ha raccontato, per ogni foto esposta, la storia della persona ritratta, offrendo così uno sguardo intimo e approfondito su ciascun soggetto, la fotografia da sola non riesce a dire tutto.

From the series Blood Bonds: Reconciliation in Post-Genocide Rwanda © Jan Banning

Il progetto di Jan Banning2, Blood Bonds: Reconciliation in Post-Genocide Rwanda, appare molto vicino a quello proposto nel 2021 da Jonathan Torgovnik, Disclosure – Rwandan Children Born of Rape, a loro volta simili, per approccio e resa, a quello di Pieter Hugo pubblicato dal New York Times Magazine nel 2014 (https://www.nytimes.com/interactive/2014/04/06/magazine/06-pieter-hugo-rwanda-portraits.html).

A rafforzare questa sensazione di ripetizione c’è anche il lavoro di Edoardo Delille e Giulia Piermartiri, Atlas of the New World. Una versione analogica delle sintografie, come spiegano loro stessi: “La tecnica adottata si basa su un procedimento analogico: alcune diapositive di paesaggi futuri sono proiettate sulla realtà circostante”. Ma ricordavo di aver già visto questo progetto, con un altro nome e immagini diverse — ma concettualmente identico — al Voghera Fotografia3 del 2023. È l’ennesima conferma di una tendenza ormai diffusa: i festival preferiscono far circolare gli stessi progetti, con qualche variazione, piuttosto che investire in vere novità. Una prassi ormai consolidata, che finisce per impoverire l’offerta complessiva.

From the series Atlas of the New World © Edoardo Delille & Giulia Piermartiri

Un’ulteriore direzione che i festival potrebbero intraprendere riguarda l’opportunità di mostrare, all’interno delle esposizioni, la distanza che talvolta esiste tra l’idea originaria del fotografo e la sua resa editoriale. I periodici, per natura, rispondono a vincoli specifici: limiti di spazio, formati rigidi, necessità di sintesi. Mettere in dialogo queste due dimensioni, quella autoriale e quella editoriale, permetterebbe non solo di comprendere meglio il processo che trasforma un progetto in una pubblicazione, ma anche di restituire al pubblico una fotografia più complessa, meno idealizzata. Un esempio in questo senso è stato proposto da Fotografia Europea 2024, con la mostra dedicata a Susan Meiselas: un confronto diretto tra le sue intenzioni narrative e le modalità con cui le sue immagini sono state accolte e adattate dalla stampa nel corso del tempo. Un’operazione simile, se portata avanti con rigore e trasparenza, renderebbe evidente il ruolo del photo editor e offrirebbe un’occasione formativa tanto per chi produce immagini quanto per chi le fruisce.

Living Service Flag, 164th Depot Brigade, Camp Funston, Fort Riley, Kansas, 1918 ca.
From the series Order/Chaos – Photographs of American Groups 1865-1965 © Mole & Thomas. Courtesy of W.M. Hunt | Collection Blind Pirate

Invece, un’altra direzione interessante intrapresa da Cortona On The Move negli ultimi anni riguarda l’attenzione verso gli archivi. La mostra ORDER/CHAOS, realizzata appositamente per l’edizione 2025, ne è un esempio significativo: una selezione di immagini dalla collezione W.M. Hunt / Collection Blind Pirate, che copre un arco temporale di cento anni, dal 1865 al 1965, in pratica, i primi cento anni della fotografia. È un lavoro prezioso perché ripropone con intelligenza il tema dell’archivio, restituendogli una centralità spesso dimenticata. L’introduzione degli archivi all’interno della programmazione del festival è stata una scelta coraggiosa e necessaria: ha dato dignità a una parte fondamentale della storia fotografica, permettendole di dialogare con la contemporaneità. Ma anche in questo caso, sarebbe auspicabile un approccio meno omologante. Presentare le stampe d’archivio con lo stesso trattamento espositivo riservato ai progetti recenti rischia di neutralizzarne la specificità. Dove possibile, andrebbero invece valorizzate le caratteristiche storiche e materiali delle immagini, dai supporti originali alle tecniche di stampa, affinché il pubblico possa percepire non solo l’evoluzione dello sguardo, ma anche quella della tecnologia. Raccontare la fotografia, del resto, significa anche raccontare come è cambiata nel tempo.

Nel 2011, alla sua prima edizione, Cortona On The Move presentava appena otto progetti. Pochi, selezionati, ciascuno con il proprio spazio e il proprio tempo. Negli anni, quel numero è cresciuto progressivamente — complice, verosimilmente, anche un aumento del budget. Ma oggi, forse, è arrivato il momento di fare un passo indietro. Non per rinunciare all’ambizione, ma per ritrovare una direzione. Tornare a un numero limitato di mostre significherebbe ridare valore al singolo progetto, al lavoro dell’autore, alla possibilità per il pubblico di sostare, capire, sentire. E magari anche rimettere in discussione il modello delle “mostre diffuse”, che, se da un lato permette di valorizzare l’intero territorio, dall’altro frammenta l’esperienza e impedisce di costruire un racconto unitario. Pensare a un’unica struttura, permanente, riconoscibile, allestita con cura, restituirebbe centralità alla fotografia e coerenza alla proposta curatoriale.

Allo stesso modo, le letture portfolio potrebbero diventare qualcosa di più di un appuntamento rituale. Oggi sono un passaggio quasi obbligato per chi cerca visibilità, ma spesso non portano ad alcuno sbocco concreto. Perché non prevedere, almeno per i primi tre selezionati, una pubblicazione su testate di attualità o magazine di fotografia? Sarebbe un modo per restituire valore all’impegno degli autori e al lavoro dei lettori, ma anche per costruire un ponte tra il festival e il mondo dell’editoria. Coinvolgere la stampa, infatti, è fondamentale. Non solo per promuovere l’evento, ma per generare riflessione, per mettere in circolo idee e contenuti, per costruire memoria e per ribadire che la fotografia non è un oggetto da esposizione, ma un linguaggio vivo, che va raccontato, discusso, condiviso.

Infine, sarebbe auspicabile che i festival si assumessero la responsabilità — e il rischio — di commissionare nuovi lavori, di investire in progetti inediti, da far crescere e circolare anche dopo la chiusura della manifestazione. Il festival potrebbe diventare così un vero laboratorio di produzione culturale, un luogo dove far nascere una fotografia nuova, più consapevole, più libera, meno derivativa. Non basta più esporre, è arrivato il momento di iniziare a creare.

Federico Emmi


Cover Image: From the series Family Trilogy © Christopher Anderson & Marion Durand

  1. Ritchin, F. (2025). L’occhio sintetico: La trasformazione della fotografia nell’era dell’intelligenza artificiale (C. Veltri, Trad.). Einaudi. (Piccola biblioteca Einaudi). ISBN: 9788806269494 ↩︎
  2. Caption Image: Epiphanie lost eight siblings, both parents, and nearly her own life in the genocide. On the first day of the killings, a mob including Jean Baptiste set fire to her grandmother’s house, where her family had sought refuge. At just six years old, she also survived a brutal attempt at rape. Years later, through a sociotherapy group, Epiphanie crossed paths with Jean Baptiste, who had served 12 years in prison for his crimes. After hearing his heartfelt apology, she found the strength to forgive, and they reconciled.
    From the series Blood Bonds: Reconciliation in Post-Genocide Rwanda © Jan Banning. ↩︎
  3. L’autorevolezza crescente di Voghera Fotografia è sottolineata da quattro importanti partnership: con il festival internazionale di fotografia Cortona On The Move che presenta la mostra “Diving Maldives” di Giulia Piermartiri e Edoardo Delille ↩︎